Mi sono laureata in Lingue e Letterature straniere
all’Università Ca’ Foscari di Venezia, con una tesi in letteratura angloamericana.
Poi ho intrapreso altri percorsi e lavorato in altri settori, ma il mio amore
per la letteratura è sempre stato così forte che mi ha spronato a cambiare vita
e quindi, diversi anni dopo la laurea, ho deciso di frequentare un corso
specifico di traduzione editoriale, il corso Tradurre la letteratura presso la
Fondazione San Pellegrino di Misano Adriatico, che mi ha dato le basi per
trasformare in un lavoro a tempo pieno quello che fino a quel momento era stato
quasi solo un hobby.
Come è nato il tuo
amore per la traduzione?
In realtà è cominciato molto presto, già alle medie mi
dilettavo a tradurre i testi delle mie canzoni preferite, in modo da poterle
cantare in italiano ma rispettando ritmo e significato. Poi un giorno, nei
primi anni delle superiori, stavo leggendo un romanzo di Stephen King, quando
mi imbattei in un’incongruenza. Ora non ricordo né il romanzo né il dettaglio,
ma so che era un particolare troppo italiano per l’ambientazione americana
della storia. Così ebbi una folgorazione: quello che stavo leggendo non era il
“vero” romanzo di Stephen King, ma quello che aveva scritto il suo traduttore.
Da lì ho iniziato a prestare molta più attenzione alle traduzioni, ai nomi dei
traduttori, a controllare se c’erano nomi di traduttori ricorrenti che
incontravo nei romanzi che più mi piacevano. Ancora non sapevo che sarei finita
a tradurre anch’io, ma quella porta si era aperta.
Come è iniziato il
tuo lavoro di traduttore editoriale? Ricordi qual è stato il primo libro che
hai tradotto?
In realtà ho iniziato con i fumetti. Collaboravo già con una
casa editrice come adattatrice testi e a un certo punto mi proposero anche una
traduzione. All’epoca era un lavoro saltuario, che consideravo poco più di un
hobby, ma mi è servito come punto di partenza.
Il primo romanzo che ho tradotto, invece, è stato Prigioniera del cavaliere di Meriel Fuller,
uno storico della collana Grandi Romanzi Storici di Harlequin Mondadori (ora
diventata HarperCollins Italia). Non è certo un capolavoro, ma ci sono molto
affezionata.
Acquisti i libri che
traduci? E che sensazione provi quando vedi il tuo nome in qualità di
traduttrice?
In genere non li acquisto perché un paio di copie le ricevo
dalla casa editrice, come da contratto. Però mi è capitato di comprarne da
regalare ad amici e parenti, che erano curiosi di leggere i miei lavori. La
sensazione di vedere il mio nome indicato come
traduttrice è indescrivibile. Non ho figli, ma ogni volta che lo vedo, specie
con AmazonCrossing che indica il nome del traduttore in copertina, provo quello
che forse è l’orgoglio di un genitore. Per questo, scherzosamente, mi piace
chiamare le mie traduzioni “i miei pargoli”.
Preferisci una
traduzione più letterale o creativa? O un mix delle due a seconda dei casi?
Non c’è una traduzione che preferisco, è il tipo di romanzo
a richiedere di volta in volta un approccio più letterale o uno più creativo.
L’ideale è sempre un buon compromesso tra aderenza alla lingua originale e
fluidità della resa in italiano, ma non sempre è possibile, soprattutto se ci
sono giochi di parole o sfumature impossibili da rendere. Allora è inevitabile
preferire una traduzione libera e creativa, perché prevale l’esigenza di
mantenere l’effetto che l’autore aveva avuto intenzione di suscitare nel
lettore, anche se la resa stravolge il testo. E ovviamente, la correttezza in
italiano deve sempre avere la precedenza sulla traduzione troppo letterale.
Raccontaci un
aneddoto, bizzarro, incredibile legato al tuo lavoro.
Credo che l’episodio più bizzarro sia stato proprio il mio
esordio. Era appena uscita l’edizione italiana di un manhwa che amavo
moltissimo, che avevo già letto in edizione inglese e anche francese, e pure in
traduzioni amatoriali. Nella versione italiana c’erano un sacco di
imprecisioni, si percepiva che chi l’aveva tradotto l’aveva fatto in maniera
meccanica, superficiale, senza approfondire la terminologia più adatta al tema
e all’ambientazione. Ho quindi scritto alla casa editrice, segnalando tutti i
punti che secondo me andavano riveduti e migliorati nel volume successivo. La
mia lettera era così appassionata che mi hanno risposto proponendomi di curare
l’adattamento testi del successivo. E così ho iniziato a collaborare con loro.
Hai tradotto alcune
autrici come Terri Osburn, Tracy Brogan, Elle Casey, Brenda Joyce, Elizabeth
Boyle, Eva Leigh e tante altre. Hai mai avuto la possibilità di chiacchierare
con qualcuna di loro?
No, in genere non ho alcun contatto con le autrici che
traduco. A volte mi capita di trovare dei punti poco chiari, ma di solito mi
confronto con la mia editor e risolviamo insieme i dubbi, senza interpellare le
autrici.
Riguardo alle
traduzioni qual è il tuo genere preferito? C'è un genere che non accetteresti
mai di tradurre? E perché?
Ovviamente amo i romance, altrimenti non li tradurrei perché
a volte tendono a essere ripetitivi, quindi se è un genere che non piace,
diventa pesante lavorarci tutti i giorni. Di solito preferisco i romanzi
frizzanti, quelli che hanno dialoghi brillanti e battute complicate da rendere,
perché presentano una sfida che dà molta soddisfazione se si riesce a
riprodurre l’effetto anche in italiano. Da lettrice amo molto anche i romanzi
fantasy, l’horror e la fantascienza, ma non mi è mai capitato di tradurne,
quindi non so come me la caverei. Invece vorrei evitare i gialli, ma solo
perché non ne leggo molti e quindi non padroneggio bene il linguaggio tipico
del genere.
Sappiamo che lavori
come traduttrice per la HarperCollins Italia e che hai lavorato come
co-traduttore per la Piemme. Molti traduttori sognano di poter lavorare per una
grande casa editrice italiana ma pare sia molto difficile (se non impossibile
essere presi in considerazione). E' davvero così? Come ci sei riuscita?
A dire il vero per me non è stato poi così difficile, ma si
è trattato più che altro di un colpo di fortuna. Ho partecipato a un concorso
di traduzione indetto dalla HarperCollins Italia (che all’epoca era ancora
Harlequin Mondadori) e ho ricevuto la menzione d’onore. Come premio mi è stata
proposta la traduzione di un romanzo, la traduzione che ho consegnato è
piaciuta e ho quindi iniziato a collaborare con loro in maniera continuativa.
Per la Piemme si è trattato di farsi trovare nel posto giusto al momento
giusto. C’erano tempistiche strette di consegna, a ferragosto, e un solo
traduttore non sarebbe bastato, così l’agenzia di traduzione che si occupava
del progetto ne ha affidato una parte a me perché aveva apprezzato la mia prova
e io ero disponibile per farmi carico del lavoro nei tempi richiesti.
Girovagando per la
rete si trovano degli articoli in cui si suggerisce ai traduttori di fare una
proposta editoriale a un editore. Pensi sia davvero una buona idea farlo oppure
si rischia il tipico "Grazie, le faremo sapere."? Ne hai mai fatta
una? Se sì, è stata accolta? Se no, conosci qualcuno che ce l'ha fatta?
Non ne ho mai fatta una e non credo di farne a breve. Di
solito le case editrici sono ben al corrente del trend editoriale futuro e di
tutte le novità degli altri mercati stranieri, è molto difficile imbattersi in
un capolavoro che sia sfuggito all’attenzione degli scout. Forse può funzionare
nel caso di lingue poco conosciute, ma non certo per i romanzi in inglese.
Conosco alcuni colleghi che ne hanno fatte e qualcuna è stata accolta, ma sono
casi particolari e di solito sono proposte ben mirate, rivolte a case editrici
medio piccole.
Lavori anche come
traduttrice per AmazonCrossing. Sappiamo che hanno una sezione dove è possibile
caricare il proprio CV ma c'è anche la possibilità di essere contattati
direttamente da loro. Raccontaci la tua esperienza.
La mia collaborazione con AmazonCrossing è un po’ atipica
perché non ho caricato il mio CV sulla loro piattaforma né sono stata
contattata direttamente, ma lavoro con loro tramite un service editoriale, che
funge da intermediario. Di solito mi propongono dei romanzi, faccio una prova
di traduzione per vedere se la mia è la “voce” giusta per il romanzo e, se la
mia prova piace, mi assegnano il lavoro. Una delle cose che apprezzo di più di
AmazonCrossing è il nome del traduttore in copertina, un’attenzione al nostro
lavoro che ben poche case editrici italiane ci riservano.
Sei stata anche
traduttrice e adattatrice testi per la Flashbook Edizioni. Come lo sei
diventata e cosa comporta lavorare su un manga rispetto alla traduzione di un
romanzo?
Lo sono diventata con l’aneddoto che ho raccontato prima,
dimostrando interesse per il loro lavoro e amore per i manga che pubblicavano.
Tradurre fumetti o romanzi sono due cose diverse, ognuna con le sue
particolarità, ma che hanno anche alcuni punti in comune. Nei fumetti hai una
gabbia da rispettare, non puoi eccedere in frasi troppo lunghe che non ci
starebbero nei baloon, anche gli a capo delle parole diventano importanti. In
più c’è la difficoltà di associare un testo alle immagini. Se c’è un gioco di
parole che in italiano si traduce in un certo modo, ma che poi non c’entra
nulla con quello che è raffigurato nella vignetta, devi trovare un modo diverso
di renderlo, a costo di stravolgere quello che c’era nell’originale. Ma imparare
a rendere bene i dialoghi nei fumetti mi ha aiutata tanto a migliorare anche la
mia resa dei dialoghi nei romanzi.
Negli ultimi anni
stiamo assistendo anche alla pubblicazione di libri stranieri in italiano senza
il classico editore. Sono gli autori stessi che contattano un traduttore oppure
usano Babelcube. Hai mai sentito parlare di questo fenomeno e in particolare di
Babelcube? Si tratta di una piattaforma che mette in contatto autori e
traduttori. Tutti lavorano con le royalties. Accetteresti di iscriverti? Se no,
perché?
A Babelcube mi sono iscritta diverso tempo fa, quando era
ancora agli esordi, per curiosità, per capire che tipo di mercato ci potesse
essere, e per capire come funzionava, ma non ho mai contattato nessuno per
propormi come traduttrice perché ritengo che lavorare esclusivamente con le royalties
non sia sufficiente come introito. Magari mi sbaglio, magari si può guadagnare
bene, ma trovare il romanzo giusto che abbia buone possibilità di coprire il
costo del mio lavoro come traduttrice è davvero difficile. In più, per quanto
io mi impegni per consegnare traduzioni al meglio delle mie capacità, so che è
necessario un lavoro di revisione, che spesso manca nelle traduzioni di
Babelcube e questo fa arrivare sul mercato traduzioni scadenti, molto
letterali, a volte con palesi errori di comprensione o di grammatica e sintassi
italiana. Può essere però un buon trampolino per esordienti, per farsi un po’
le ossa e costruirsi un CV. Ma se manca la figura di un revisore, manca anche
un punto di riferimento che possa insegnarti quali errori evitare e come
migliorarti, cosa che per me è stata essenziale all’inizio e lo è tutt’ora.
Credo che prenderei in considerazione di lavorare con Babelcube solo per
arrotondare in tempi in cui il lavoro scarseggia, cosa che, lavorando da
freelance, ogni tanto capita.
Se questo tipo di
pubblicazione diventasse sempre più diffuso, pensi che gli Editori non
avrebbero più ragione di esistere o rimarrebbe solo una pubblicazione
alternativa?
Penso invece che l’editore rimanga una figura importante, un
filtro necessario tra gli autori e il pubblico per presentare prodotti
confezionati al meglio. Certo, con la crisi dell’editoria forse non tutti gli
editori lavorano come si dovrebbe e ci ritroviamo con libri tradotti male,
pieni di refusi e poco curati anche in libreria, ma in linea di massima
l’editore dovrebbe essere una figura che garantisce un certo livello di
qualità. Inoltre conosco tantissime persone che tutt’oggi non leggono e-book o
che comprano esclusivamente in libreria, quindi ritengo che ci voglia ancora
molto tempo prima che l’auto-pubblicazione soppianti totalmente l’editoria
tradizionale.
E per concludere,
quali sono i tuoi progetti futuri?
Per i progetti a breve termine, consegnare entro le scadenze
delle buone traduzioni dei romanzi che mi sono già stati assegnati quest’anno,
per il lungo termine invece voglio continuare a migliorarmi, magari con dei
corsi di aggiornamento o seminari specifici, perché in questo lavoro non si
finisce mai di studiare e imparare.